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più volgare e del più ignobile de’ miei sudditi. E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee, immaginava come le ocche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un’oca? Potremmo forse dire che l’oca ha la pelle di oca?
Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell’imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati.
La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell’Oriente vi erano state accumulate a larga mano.
Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell’architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva nè veduto, nè immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d’India, gli in-