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rientrato, suo malgrado, in quella casa dove aveva già dissipate somme considerevoli, e dove aveva risolto pochi giorni innanzi di non porre più piede. Ma i proponimenti dei giuocatori sono labili come quelli degli amanti: tra il giuoco e l’amore corrono dei rapporti ben definiti; l’amore non è che un giuoco, il giuoco non è che amore di danaro — amore e danaro costituiscono le due passioni più ardenti dell’anima umana, e partecipano entrambi nella stessa misura, di tutte quelle debolezze che sono proprie della nostra natura.

Il barone di Rosen era dunque ritornato in una di quelle sale e s’era seduto ad un tavolo già occupato da buon numero di avventori. In quella stanza regnava un silenzio assoluto, non interrotto che dal rotolarsi alternato dei dadi o dallo sfogliarsi delle carte, o dal crepitio della fiamma del caminetto; i sigari e le pipe esalavano nubi di fumo, tra le quali apparivano confusamente le fisionomie calme e impassibili dei giuocatori.

L’arrivo di Rosen non fu avvertito che dal lieve scricchiolio d’un’altra sedia che venne a posarsi da un lato del tavolo; i vicini alzarono gli occhi, salutarono accennando del capo, e continuarono il loro giuoco. Si sarebbe detto tuttavia che essi attendessero qualche grosso guadagno da quel nuovo arrivato, poichè lo sbirciavano di traverso colla coda dell’occhio, e parevano aspettare che egli chiedesse le sue carte per l’intera somma che era collocata sul tappeto d’innanzi al direttore del banco. La doveva essere infatti una