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In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e venne a passargli d’innanzi al tiro. Il barone fu sollecito a curvarsi, ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma... cosa prodigiosa! in quell’istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il fragore dello sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader l’arma di mano, mentre una voce interna gli diceva: che begli uccelli! che belle penne che hanno nelle ali!... mi pare che sieno colombi selvatici...
— Per l’inferno! esclamò il barone portandosi le mani alla testa, io non comprendo più nulla di me stesso... sono ancora io, o non sono più io? o sono io ed un altro ad un tempo! Quando mai io ho avuto paura di sparare il mio fucile! Quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma... veramente parmi che non sieno più miei questi seminati... Basta, basta, torniamo al castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà buttandomi a letto.
E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un’altra volontà che pareva esistere in lui lo sforzò a rimanere nella posizione di prima, quasi avesse voluto dirgli: no, stiamo ancora un poco seduti.
Il barone sentì che annuiva di buon