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paolina. 57


uscir meco alla campagna, e mi condusse attraverso una gran foresta di pini. — La luna vi diffondeva una luce viva e malinconica, i luppoli e le vitalbe lanciandosi da un albero all’altro avevano formato coi loro festoni e colle loro ghirlande pensili alcuni padiglioni naturali che parevano invitare al raccoglimento e alla meditazione. — Noi sedemmo in uno di essi: il vento ci agitava sul capo quei gran fiocchi bianchi delle vitalbe, e faceva crepitare con uno strano mormorìo nelle loro coccole i semi già maturi del pino. Le ombre di quelle ghirlande così sospese, e di quegli alberi così agitati parevano andare e venire come fantasmi che, senza uscire dal luogo del loro convegno, gesticolassero con violenza e definissero con accento animato qualche loro vecchio rancore. — Non si udiva altra voce che il canto interrotto e ripreso ad intervalli d’una di quelle piccole rane verdi delle siepi, le cui note sono così malinconiche e toccanti: fu allora che la natura riebbe per un istante il mio cuore, e che i miei antichi affetti soverchiarono ancora la passione recente: io piansi lungamente e con abbandono, trattenendo il singulto; piansi tacitamente, perocchè non sieno le lagrime che segnino la misura del pianto; ma fu un ravvedimento fugace; nulla valse a ridonarmi quella verginità di pensieri che aveva già in parte perduta; nulla potè spegnere in me quel desiderio funesto di conoscere un mondo che mi era dipinto con colori così abbaglianti: io non temeva nulla dall’avvenire, ed amava disperatamente quell’uomo.