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conico degli usignuoli; e la povera fanciulla, debole, brutta, malaticcia, talora percossa, cacciata sempre dalle porte, non vista e non avvicinata che con ribrezzo, si era come innamorata della natura, e si rivolgeva continuamente a quell’essere grande ed incomprensibile, che aveva create tante cose meravigliose, di cui la chiamava a fruire come il ricco.

Non è a dirsi quanto questo sentimento istintivo di religione si nobilitasse e s’immedesimasse quasi con lei, allorchè per le occupazioni del fratello le fu dato di vivere con esso in una bella soffitta, di conversare alla sera dai loro lettini, di pranzare assieme seduti ad un tavolino, di coltivare sulla sua finestra un cespo di rose muscate.... oh! queste gioie erano troppo grandi per la povera fanciulla; ma, ohimè! essa non prevedeva ancora quanto sarebbero state fugaci.

Uno spirito così squisitamente sensibile, così puro, così delicato, animava forme troppo neglette dalla natura. Quantunque la sua anima trapelasse tutta dallo sguardo, e la sua fisonomia non potesse quindi essere spiacevole, essa era piccola di statura, alquanto curva, molto sottile ed immagrita; i suoi lineamenti erano irregolari, la sua bocca assai grande, le guancie sparute; la poveretta nulla aveva di bello, nulla di attraente, e per una corruzione del dialetto milanese, il suo stesso nome erale stato alterato, e veniva chiamata la Mineu, unico appellattivo sotto cui ella fosse conosciuta. Però questa medesima bruttezza l’aveva difesa dalla corruzione, e l’aveva tratta innocente dal trivio e dalle bische, ove era vissuta fino ai tredici anni.