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disperato, e chinando il capo sul guanciale del letto di Luigi, si pose a piangere dirottamente.

Ella era così debole, egli così sfiduciato, il dolore ammolliva, temperava il cuore dell’una, lacerava e impietriva quello dell’altro: in entrambi la parola non aveva più nulla di efficace, nulla di confortevole; tacevano e dicevano tutto tacendo.

Ora da questa scena illuminata da una luce cupa e mancante, in una prigione umida, lunga, sotterranea, con un viso bianco di malato che spicca vivamente da un fondo scuro e confuso, una fanciulla accosciata che piange, la brezza che invade dalla finestra mal difesa, la neve che fiocca a folate, portiamoci per l’intelligenza del nostro racconto ad ascoltare una parte del dialogo di Paolina col marchese in una camera addobbata con una dovizia da re, e come un soggiorno delle fate, dove la luce entra a torrenti per i cristalli limpidissimi e per le cortine di raso, dove la temperatura si mantiene tiepida e naturale come in un giorno sereno di maggio, e le cardenie e le viole esalano dai loro vasi di Sevres un olezzo di primavera.

Come coloro che escono improvvisamente dal buio alla luce, noi restiamo compresi d’una ammirazione subitanea, penosa, a questa antitesi di due destini: siamo acciecati da quelle tenebre, e abbagliati da questo splendore, e pure là vi era un uomo onesto, qui vi è un uomo scellerato. Come ciò? Ma ascoltiamo le parole di Paolina.

— Un favore.... a lei!...

— Sì, un favore che non vi costerà che un disturbo di