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esistenza, al cui termine non si è mai pensato, ma per il quale non si ignora che si deve morire. Essa poteva dunque sopportare con coraggio quella separazione, ma non senza sentirne l’amarezza, perchè un dolore non perde nulla della sua natura per quanto sia fortemente tollerato; e questa nuova condizione di cose aveva alterata la sua indole, aveva dissipata la sua vivacità, aveva iniziato in lei quella disillusione lenta e pensierosa, ma attiva e instancabile, per cui da una fede cieca ed universale si passa ad un cinismo assoluto e inguaribile. Ma la religione arrestava Paolina su questa via, e quante volte essa era afflitta della terra si rivolgeva al cielo, e i suoi pensieri tornavano vergini e puri: vi aveva colà una fonte di fede e di amore, a cui attingeva la forza di perseverare nella virtù e nella rassegnazione. Essa non vi scorgeva quell’Essere terribile e vendicativo che la nostra religione ha vestito di tutti gli attributi, e delle passioni più abbiette degli uomini, ma un Dio infinitamente grande, infinitamente buono e misericordioso, che le parlava nella maestà dell’universo, nel linguaggio delle stelle e dei fiori, che le ragionava d’un premio alla virtù, e d’una seconda vita incomparabilmente migliore.

Così trattenuta sull’abisso di quel terribile disinganno, da cui, una volta caduti, non si risorge più nella vita; nè troppo illusa, nè troppo sfiduciata sui nostri destini, la sua esistenza si compendiava tutta nel pensiero: essa era uno di quegli esseri nobili e delicati, sempre pensanti, ma sempre amorevoli e fiduciosi, la cui sensibilità ha fibre che si riscuotono ai dolori di tutta la grande famiglia, ovunque sieno sentiti,