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l’altrui felicità, e ne soffriva. Avrei potuto strapparmi il cuore, ma non avrei potuto sentir nulla per esse.

Così era di Fosca — se non che la sua bruttezza la poneva anche fuori di questa legge.

XXV.

Un giorno — ne erano trascorsi più di venti dacché l’aveva veduta l’ultima volta — suo cugino non comparve a tavola — tutta la casa era in disordine e i camerieri ci avvertirono che Fosca, peggiorata improvvisamente, si trovava in pericolo di vita; ci fossimo perciò accontentati di un pranzo improvvisato alla meglio.

Quella notizia mi giungeva così inattesa, e mi trovava così disarmato da quella lunga dimenticanza, che mi sentii colto da un subito terrore, quasi avessi dovuto essere io la causa della sua morte. La mia debolezza m’induceva a credermi colpevole, e mi creava dei rimorsi che non avrei dovuto sentire.

Sarebbe ella morta per me? Questo pensiero mi trapassava il cuore come una lama di coltello.

XXVI.

Nella sera di quel giorno medesimo ricevetti una visita del dottore che aveva conosciuto in sua casa.

— Devo parlarvi premurosamente d’una cosa che vi riguarda, diss’egli entrando e sedendosi. Vi prego anzitutto a non tacciarmi d’indiscrezione se, mio malgrado, sono venuto a conoscenza d’un segreto del vostro cuore