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molli nomi che il tempo aveva in parie cancellali: due righe sole parevano recenti e dicevano: 22 agosto 1863.

Giulio e Teresaamanti e sposi felici.

Mentre Fosca me le indicava col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. Non era effetto di voluttà, ma prostrazione, abbattimento improvviso.

Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito più intimamente: la mia situazione era tale da sentire più al vivo quel richiamo: «amanti e sposi,» noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremmo stati sposi mai; il nostro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. Essi erano stati in quell’eliso quattro soli giorni prima di noi — era allora il ventisei agosto, me ne ricordo bene — come dovevano esservisi sentiti felici! Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi, sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di ammalarsi, di morire... «prima io; no, prima io... assieme...» E mi veniva in mente che quattro giorni prima era stato un bel giorno quieto, fresco, sereno, e il sole doveva essere tramontato, come allora, in un oceano di raggi infuocati, e quel luogo doveva essere stato bello, severo, incantevole come in quel momento.

L’immagine di quella felicità era venuta a colpirmi nella pienezza della mia baldanza. Non invidiava quelle due creature, ma mi faceva male il pensare che v’erano al mondo esseri tanto più felici di me.

Avvenne una reazione istantanea nelle mie idee; mi riebbi subito da quella specie di allucinazione che mi aveva dominato fino allora, pensai al discorso tenuto con Fosca, e ne sentii pentimento.