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— E al castello.

— Vi è un castello?

— Diamine! Avete visitato il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l’onore di accompagnarci...

— Molto volontieri, ve ne ringrazio — e diceva la più solenne menzogna del mondo. — Dacchè ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il più rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un’ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo’ pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto...

Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare.

Quell’atto mi sorprese e mi turbò nel più profondo dell’anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s’avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d’imbarazzo:

— Anch’io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa.

E vedendo che m’era alzato e aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta:

— Guardate, abbiamo lì, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di cardenie...

Così dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario.