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de’ suoi bicchieri v’era tutti i giorni un fiore fresco; e, cosa che mi preoccupava non poco, benché non sapessi immaginare le ragioni — e non ve n’erano — quel posto vacante rimaneva sempre vicino al mio, ora da un lato, ora dall’altro, ma sempre vicino. Ciò mi metteva in pensiero, mi pareva che mi mancasse qualcosa, non mi trovava a mio agio, mi sembrava che essa avrebbe dovuto entrare da un istante all’altro per venirsi a sedere al mio fianco.

Questa preoccupazione era però esclusivamente mia, i miei commensali non si davano alcun pensiero di quell’ammalata, e parevano considerare quello stato di cose come naturalissimo. Tutto al più si limitavano a dire a fin di tavola:

— Anche oggi la signora ci ha lasciati soli!

Per me trovava strano che ogni giorno si apparecchiasse per lei, e ogni giorno la si aspettasse, come se la sua malattia fosse stata cosa da poterla abbandonare da un’ora all’altra; né avrei osato chiedere spiegazioni al medico, col quale, come ho detto, era già entrato in qualche intimità, se un avvenimento inatteso non mi avesse posto nell’obbligo di farlo.

Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. Quelle grida echeggiarono sì fortemente e sì improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii, e quasi per istinto feci atto di alzarmi e di voler accorrere in suo aiuto.

Il colonnello sorridendo un po’ tristamente, e stringendomi la mano come per ringraziarmi di quell’intenzione, mi prevenne, e mi disse:

— Non vi sgomentate, è mia cugina, essa patisce di convulsioni nervose, è cosa da nulla, fra pochi minuti le saranno cessate.