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Egli era uomo di circa sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell’assenza di forza era compensata da molta dolcezza d’animo, e da una specie d’ingenuità che rasentava quasi l’ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell’età e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d’uomini, doppiamente straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto.

Un’avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con un’estrema temerità, e l’aveva avuta salva in modo singolarissimo — avventura troppo impressa nelle mie memorie, perché mi giovi l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva creato nell’esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona.

Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell’accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello.

— Noi ci troviamo qui — diss’egli dopo avermi parlato a lungo di molte cose — come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente.

— Sono tuttora all’albergo — io dissi.

— All’albergo! E come vi avete mangiato?

— Non so...; parmi pessimamente.