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XI.


Allorchè io giunsi a ***, non ostante il dolore di quella separazione improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritta a Clara, non era che una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori più belli nella corona della gioventù, la sola età dell’esistenza in cui si sappia veramente amare e soffrire.

La piccola città di *** — ne taccio il nome perchè potrei smarrire queste pagine, e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere — è una città angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una steppa o in una savana piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Nè gli uomini erano allora più cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola città, per la