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erano carichi di ghiacciuoli che la brezza faceva cadere dai rami; le campane dei paeselli vicini continuavano a suonare a festa; gruppi di contadini andavano alla città o ne tornavano coi loro canestri; le campagne erano coperte di neve e deserte.

Scendemmo nel fossato per una frana che le pioggie avevano prodotto nel terrapieno. Colà non v’era a temere di esser visti. Quel castello, cui tante volte aveva dovuto recarmi con Fosca e che non aveva veduto mai, non era abitato che da pochi coloni; le sue torri screpolate coperte di ficaie selvagge e di ellere pareano minacciarci di crollare sopra di noi.

I nostri secondi convennero che ci fossimo battuti alla sciabola, come arma meno pericolosa. Ciò era per me indifferente. Non perchè non odiassi quell’uomo, ma perchè in quell’istante non aveva coscienza nè dell’altrui pericolo, nè del mio; quella specie di esaltazione, di sonnambulismo che aveva provato in me fino dalla sera precedente era ancora più piena e più profonda. Non vedevo con chiarezza, non aveva che una percezione imperfettissima delle cose che accadevano intorno a me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa alle vene delle tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un tintinnìo incessante; provava in tutto il mio corpo quell’impressione che dà non un dolore, ma l’aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti tutta la mia macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere in attesa di qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulminato.

Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lì presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso.