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fosca 209


Glielo dissi.

— Giuralo.

Giurai.

Si abbandonò fremente di piacere sopra di me, mormorando parole di desiderio e di preghiera.

Il mio cuore era straziato dall’angoscia.

Quella creatura selvaggia, resa terribile dalla deformità e dalla malattia, domandava da me l’ultima prova. Lottai contro me stesso, contro la mia natura codarda che si ribellava ad un sagrifizio che io stesso avevo provocato.

Se fosse stata Clara! Che dico? Se fosse stata la più vile donnicciuola, io sarei caduto ai suoi piedi supplichevole, avrei dimenticato il mio cuore, la mia mente, la mia anima nell’ebbrezza dei sensi. Codardo! Codardo!

Nell’impeto generoso che succedette a questo pensiero l’afferrai convulso, la sollevai sulle braccia, la portai in giro per la camera smaniando. Così altre volte, con altro fremito, con altro spasimo, io aveva portato il corpo adorato di Clara! Erano le stesse grida, le stesse parole rotte, lo stesso fruscìo di vesti, lo stesso ondeggiare di capelli disciolti, lo stesso profumo inebbriante...

Ansante, pallida più del consueto, ella mi scivolò dalle braccia, e si accosciò sul nudo terreno. Me le assisi al fianco.

— Ho freddo, — mi disse.

— Ti riscalderò sul mio seno.

— Come sei bello! come ti amo!

Si levò d’un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo:

— Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi.

E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto