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202 | fosca |
un moto sì risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi vide, die’ un grido, balzò in piedi, e mi corse incontro con le braccia protese, e mi avvinghiò al suo seno palpitante. Il mio cuore fremeva come all’aspetto d’una immensa sciagura.
Quell’amplesso fu lungo e penoso. L’emozione ci aveva reso mutoli entrambi.
La pallida luce che illuminava la stanza, il crepito lieve del lucignolo, il battito affrettato dei nostri petti, e la calma che vegliava al di fuori, davano a quel momento una solennità che cresceva il mio affanno.
Feci un moto come per ritrarmi da lei; ella se ne avvide, ne indovinò il senso e gettandomi le braccia al collo, piegò il mio capo verso il suo, si sollevò sulla punta dei piedi, accostò le sue labbra arse dalla febbre alle mie labbra, e mi coprì di baci brevi, replicati, frenetici. Tutta la sua natura combatteva una terribile lotta di desiderio e di amore; il suo corpo fragile e consumato dal dolore aveva un’energia che m’impauriva.
La trassi con dolce violenza presso un divano, e la feci sedere; io me le posi d’accanto. Mi afferrò le mani, me le strinse con forza, le accostò al suo seno, poi alla bocca fremente. Il suo corpo tremava tutto.
— Hai freddo? le domandai commosso.
— Ho paura, mi rispose.
La guardai in volto meravigliato.
— Di che?
— Di morire, di non poter reggere l’urto di quest’onda di felicità che mi opprime. Ho pregato il cielo che mi desse la forza che mi manca; poche ore, poche ore sole, e poi la morte; che importa a me di morire quando io abbia vissuto questa notte nelle tua braccia? Il cielo è generoso, non è vero? Ha pietà di coloro che amano?