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Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l’emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza.

Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d’ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era più piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell’atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro sorridendo — nè io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite — chiesi alla padrona della bettola, se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco.

— Non v’è altra stanza che questa, diss’ella, ma per loro, signori, se vogliono... metterò a loro disposizione la mia.

Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d’un ampio camino, dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca che vi si lasciò cadere sfinita, ne presi un’altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei dall’altra parte del camino.

Eravamo soli, e poichè non era più possibile evitare una spiegazione, credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo.