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Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlando e sorridendo con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: «Giorgio e Clara, 19 dicembre 1863.»

Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto i miei affetti, non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva cominciato a piovigginare. Mi sedetti ad un'estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia di Clara; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi fulminato: era Fosca.

Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggeri si rivolsero verso di lei con aria mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai veduta sotto un aspetto sì spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a discendere con lei dalla vettura; ma non m'era balenata alla