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era vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a poco nell'oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto immerso nel pensiero dei miei affetti e dei miei dolori.

Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l'uscio con violenza, poi Fosca comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto.

— Tu soffri, tu sei malato, e per colpa mia! Oh mio Giorgio, o mio angelo, perdono, perdono!

Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole.

— Fosca, io le dissi, che hai fatto? Alzati, alzati.

— No, finché non mi avrai perdonato.

— Ma io non ho nulla a perdonarti.

— Sì, dimmi che mi perdoni.

— Ti perdono.

— Oh grazie, grazie!

Si alzò a stento, e si abbandonò con le braccia distese attraverso il mio letto.

— Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato con le mie insistenze, ho abusato troppo di te. Sì, sì, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio! E tu non vuoi neppure dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma sapessi quanto ho sofferto anch'io stanotte! Dio, quanto ho sofferto! Io ignorava che tu eri malato; era in letto io pure, l'ho saputo adesso, mi sono subito sentita forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo! povero angelo! Oh, io sono una insensata, una miserabile!

E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo.