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malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sì violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sì aggraziato, sì facile, e le modulazioni della sua voce sì dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia.

Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce più serena, e circondarla d’un’atmosfera meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sì ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sì spaventevole. In quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.