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i. u. tarchetti. | xvii |
tenere il proprio cuore e vincere la febbre di espandersi che lo divorava, certo che quei racconti o egli non li avrebbe per nulla mandati in giro, o, se questo avesse fatto, non li avrebbe lasciati lì come sono.
Con qual diritto dopo tutto gli rimprovereremmo ora noi di essere in quei racconti caduto così spesso nel vacuo, nel leggiero, nel contradditorio?
Fosca, che fu l’ultima elegìa cantata da quell’anima addolorata, c’impone di tacere e di non avventare così sprovvedutamente un giudizio. Le pagine di quel racconto non hanno avuto, nè, mi penso, avranno riscontro in alcuna letteratura mai: sono desse così terribilmente vere! La fantasia e la immaginazione non entrano per nulla nella dipintura di quelle scene. L’uomo che è stato cotanta parte di quei miserrimi eventi, il cuore che ha sentito quei dolori, quelle angoscie, quegli strazi, soltanto quel cuore poteva farne il racconto; sicchè il pregio