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essendo per le tante parole e contese guasta la buona milizia; e finalmente Fabio sospettò non passasse Y insolenza in perfidia.
XXVIII. Perchè all’avviso che l’armata d’Otone avea rotti i cavalli treviri e i Tungri, e costeggiava la Gallia Narbonese ; per buona cura di difender quelli amici e per militare astuzia di spartire quelli Batavi scandolosi, e tutti insieme possenti, comandò a una parte, che andasse a quel soccorso. Ciò udito e sparsosi, s’addoloravano gli aiuti e fremevano i nostri: » Che l’aiuto di quei pratici e fortissimi vincitori di tante guerre, fosse levato lor in faccia del nimico in sul buono del combatterlo. Se più vale Provenza che Roma, e la salute dell’ Imperio, corressono tutti là; ma se la sanità, il nutrimento, il bene della vittoria, stava nell’Italia, non si tagliassono quasi i più forti nerbi di questo corpo ».
XXIX. Mandando Valente i sergenti per chetare questi orgogliosi, gli si voltan co’sassi : ei fugge: corrongli e gridangli dietro, che nascondeva le spoglie delle Gallie, l’oro dei Viennesi, e’l premio di lor sudore; saccheggiangli le bagaglie, i padiglioni, frugano infin sotterra co’ dardi e aste. Egli s’acquattò, vestito da schiavo, appresso a un Decurione di cavalli. L’ardore alquanto ammorzò; e Alfeno Varo maestro del campo v’ aggiunse quest’ arte : non fece andare i Centurioni a riveder le sentinelle; non sonar trombe che i soldati chiamano a’ lor ufici; onde si stavano a man giunte: guardavansi in viso balordi: e del proprio vedersi senza Capo impauriti, chiedevan mercè con silenzio, pentimento, preghi e pianti. Uscito fuori Valente tutto brutto, piangente, e vivo, fuor d’ogni credere, impazzati d’allegrezza, compassione, favore ( come va il popolazzo da estremo a estremo),