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re quasi di avere già ottenuto il permesso di partire e vado a prepararmi.
«Un bacio dal tuo affezionato figlio.
Alfonso.»
II
Alle sei sonate Luigi Miceni depose la penna e s’infilò il soprabito corto corto, alla moda. Gli parve che sul suo tavolino qualche cosa fosse fuori di posto. Fece combaciare i margini di un pacchetto di carte esattamente con le estremità del tavolo. Ci diede ancora una guardatina e trovò che l’ordine era perfetto. In ogni casella le carte erano disposte con regolarità che le faceva sembrare libretti legati; le penne accanto al calamaio erano poste tutte alla stessa altezza.
Alfonso, seduto al suo posto, da una mezz’ora non faceva nulla e lo guardava con ammirazione. A lui non riusciva di portar ordine nelle sue carte. Qua e là era visibile il tentativo di regolarle in alcuni pacchetti riuniti, ma le caselle erano in disordine; l’una era riempita di troppo e disordinatamente, l’altra invece vuota. Miceni gli aveva spiegato il sistema per dividere le carte secondo il loro contenuto o la destinazione e Alfonso lo aveva capito, ma, per inerzia, dopo il lavoro della giornata non sapeva adattarsi ad altra fatica non assolutamente necessaria.
Miceni già in atto di andare gli chiese:
— E ancora non sei stato invitato dal signor Maller?
Alfonso accennò di no; sfogatosi in quella lettera a sua madre, l’invito gli sarebbe stato una seccatura e null’altro.
Era Miceni la causa che Alfonso nella lettera alla madre aveva alluso alla superbia dei principali; gli aveva parlato spesso dell’invito mancato. Vigeva l’uso che ogni nuovo impiegato venisse presentato in casa Maller, e a
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