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istante e guardato i suoi interlocutori con quello sguardo di domanda che ha il cane per il padrone che gli proibisca di toccare un pezzo di carne.
— Ed è sempre cosí, mai violento? — chiese Alfonso a bassa voce.
— Può parlare ad alta voce, — gli rispose Prarchi, e lo fece avvicinare.
Leggendo, Fumigi declamava fermandosi con compiacenza a certe parole dal suono piú forte. Poi parve adirarsi, gridò, masticando le sillabe e ripetendole.
Alfonso capitò fra la luce e il giornale e l’ammalato alzò il capo dopo un istante di sorpresa al vedere quell’ombra proiettarsi sulla carta; quando l’ombra scomparve si acquietò di nuovo al suo lavoro.
Era entrato qualcuno nella stanza e prima di udirne la voce Alfonso sentí ch’era Macario. Nell’imbarazzo volle ritardare tale incontro e si mise a guardare Fumigi con attenzione intensa fingendo di non essersi accorto di Macario neppure quando lo udí salutare Prarchi.
Si avvicinavano a Fumigi e quindi a lui.
— Come va? — chiese Macario battendo la spalla all’ebete.
Era tanto disinvolto che realmente non doveva aver veduto Alfonso. Quando lo vide non si commosse di piú, rimase impassibile; gli fece un saluto indifferente come se non si fossero divisi che da pochi giorni soltanto. Alfonso aveva fatto bene a non dire a Prarchi che dopo il suo ritorno egli vedeva Macario per la prima volta, perché Prarchi altrimenti si sarebbe sorpreso del contegno di Macario.
— Le mie congratulazioni. — mormorò Alfonso porgendogli la mano che da Macario venne stretta con un inchino cortese ma di certo non amichevole.
Poi non si dissero altro.
Prarchi aveva dato a Fumigi della carta e una matita, e, quantunque non l’avesse chiesta, Fumigi non appena ricevutala si mise a scrivere con l’accuratezza con cui si dipinge.
— Vieni? — chiese Macario a Prarchi. — Avrei da dirti qualche cosa.