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l’ultima moda di Parigi con una giacca larga e corta e i calzoni stretti che svelavano le forme stecchite delle sue gambe. Alfonso non lo aveva ancora visto.
Attraversarono la prima stanza del caffè, un bel locale ma con le tappezzerie ordinarie in colori vivaci non ancora abbrunati dal tempo. Per una piccola porta mascherata da una tenda verde entrarono nell’altra stanza oblunga che bastava al bigliardo e al posto per giuocarvi.
Non v’era che Fumigi seduto accanto ad una finestra e leggendo un giornale con tale attenzione che non s’accorse dei nuovi venuti. Soltanto allorché Prarchi gli toccò la spalla egli si volse senza fretta e esaminò a lungo prima Prarchi e poi Alfonso con un sorriso da ebete soltanto perché continuo e senza causa, mentre del resto era il sorriso solito di Fumigi alquanto inerte e pallido. Il volto era piú scarno, ma la figurina, almeno vista seduta, sembrava non aver perduto nulla della sua dirittezza. Masticava e Alfonso credette che avesse qualche cosa in bocca; li guardava e parve volesse parlare, ma poi dimenticò la loro presenza e volle rimettersi a leggere con premura convulsa.
— Signor Fumigi! — disse Prarchi ad alta voce e scotendolo, — non riconosce questo signore?
Fumigi guardò a lungo Alfonso e dava ad ogni tratto un piccolo grido di sorpresa credendo di riconoscerlo; poi si ricredeva. Si risolse:
— Come sta?
Era evidente che rinunziava a riconoscerlo; aveva perduto la memoria e non la cortesia.
— Bene, grazie, e lei? — chiese Alfonso commosso.
— Bene... bene.
Poi masticò delle parole che non si comprendevano accennando al giornale; voleva raccontare quello che aveva letto. Quantunque i due giovani non facessero motto, Fumigi comprese che non lo si capiva. Ripeté gridando una frase, poi l’abbreviò per poter dare maggior cura alla pronunzia. Infine rinunziò al suo pensiero e si accontentò di dire un nome scandendone le sillabe. Era il nome di un uomo politico che mesi prima aveva fatto parlare molto di sé. Ripiombò nella sua lettura dopo di aver esitato un