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mo a sopportare da solo le fatiche del suo impiego per averne tutti i vantaggi. 

Ma era troppo tardi. Subito, il primo giorno, Cellani si avvide del mutamento perché abituato ad essere servito meglio. Chiamò Giacomo per sgridarlo di aver lasciato sucido il suo tavolo. Il giovinetto venne e rapidamente disse una frase rimuginata dacché Antonio gli aveva proibito di mettere piú piede in stanza di Celani; egli aveva calcolato tutte le conseguenze e nulla lo sorprendeva. 

— Sa! non sono stato io quest’oggi a fare la stanza, ma l’ha fatta Antonio perché l’ha voluto. Io avevo già principato e mi ha mandato via. 

Si era al due di gennaio e al primo erano state distribuite le mancie, cosí che a Cellani fu facile mettere in relazione con esse il nuovo zelo di Antonio. Comprese e ne fu commosso. Diede del denaro ad Antonio, ma non seppe essere buono del tutto e lo pregò di lasciar fare la sua stanza a Giacomo. La sua comodità gli era divenuta troppo cara. 

Fu per Antonio una sventura perché con questo licenziamento diminuiva il suo emolumento senza perciò diminuire sensibilmente il suo lavoro. Gl’impiegati della cassa, alla quale era addetto, per riguardo a Cellani lo avevano fatto lavorare poco, mentre ora venne di nuovo costretto a correre per la città, a riscuotere e a pagare. Di piú, sapendolo unicamente al servizio della cassa, quando agli altri uffici occorreva un maggior numero di fanti, si chiese piú di spesso al cassiere il permesso di servirsi di Antonio. 

Raccontò egli stesso la sua sventura ad Alfonso. Sanneo faceva trasportare in corrispondenza il deposito di carta che fino allora era stato conservato nelle stanze della contabilità e del trasporto vennero incaricati Antonio, Santo e Giacomo. Ben presto questi due ultimi se ne andarono perché sul corridoio aveva suonato piú volte il campanello elettrico. Non ritornarono piú e Antonio sbuffò per due ore a trascinare pacchi di carta compressa che pesavano, diceva, come piombo. 

— Ella non è piú al servizio del signor Cellani? — gli chiese Alfonso.