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quillarlo; — alla peggio ella avrà un poco da correre per la banca a cercare qualche documento.
Rimanendo alla banca correva dunque i medesimi pericoli che andando ai funerali.
Sarebbe stato pur bello che lo si fosse sempre lasciato tanto tranquillo. Mentre di solito, per quanto la stanza fosse appartata, vi pervenivano dal corridoio e dagli altri uffici dei rumori spesso indistinti ma sempre, per la loro continuità, seccanti, quel giorno non si sentiva che il passo o la voce di qualche singolo individuo e a riprese, con lunghi intervalli. Il cortile sul quale dava la finestra della stanza era sempre muto.
La sua solitudine non durò a lungo. Si picchiò alla porta ed egli sorpreso e spaventato si alzò gridando di entrare.
Era una donna, probabilmente una sartina; sulla testa bionda aveva un velo nero e il vestito appariva alquanto uso ma decente e portato con cura e buon gusto. Ella lo guardò attendendosi di venir riconosciuta.
— Non mi conosce piú? — e rimase esitante accanto alla porta forse già dolente d’essere venuta in quel luogo. — Le fui presentata dal signor White.
— Ah! la signora White! — gridò egli sorpreso e offrendole una sedia. Adesso si rammentava della figura bionda e pallida che aveva vista china al telaio in casa di White. Volle togliersi dall’imbarazzo: — Mi scusi se non la riconobbi, ma ne è colpa quel velo che le vedo per la prima volta in testa e che le muta la fisonomia.
Ella ebbe un sorriso che non era soltanto forzato ma anche negletto; non aveva la mente rivolta a prepararlo. Gli disse che veniva da lui perché riteneva ch’egli sapesse qualche cosa di White suo amico. Parlava alla perfezione il dialetto.
— Non scrive a lei? — chiese Alfonso molto sorpreso.
Egli non s’era rammentato che, partito White, la sua donna era rimasta. Una bella figura quella della francese. Alta, ritta, dalle forme precise; delle linee femminili su un corpo virile.
— Le ultime lettere le ricevetti da Marsiglia — gli disse essa arrossendo.