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cune già sigillate. Senza piú curarsi di Alfonso, il signor Starringer ne prese una, si sedette e in un libro che aveva dinanzi ne copiò l’indirizzo con mano tremante. 

Nel corridoio era venuto a sedersi il giovinetto Giacomo, entrato alla banca il giorno dopo di Alfonso. Aveva quattordici anni, ma la sua carne abbondante bianca e rosea da bambino e la statura bassotta gli davano l’aspetto di decenne appena. Quantunque lo vedesse tutto il giorno ridere e scherzare con gli altri fanti, Alfonso si ostinava a crederlo dispiacente d’essere lontano dal suo Magnago donde veniva, e gli voleva bene. 

— Questa sera fino alle dieci — gli disse accarezzandogli il mento. 

Il giovinetto gli sorrise lusingato. 

Il signor Maller uscí dalla sua stanza. Aveva indossato il cappotto, e il cappuccio gli pendeva dalle spalle. Cosí vestito spiccava maggiormente l’altezza della sua figura e ne era attenuata la grossezza. Alfonso salutò e il signor Maller rispose col medesimo cenno a lui e a Giacomo. Faceva sempre dei saluti collettivi. 

Il servo del signor Maller, Santo, seguí il principale lungo tutto il corridoio per aprirgli la porta d’uscita. Era un ometto non vecchio, con un barbone biondo e qua e là incolore, la testa precocemente calva. Faceva la bella gamba, a quanto se ne diceva, non avendo da fare altro che servire il signor Maller, mentre gli altri fanti erano addetti agli uffici. 

Ritornato nella propria stanza, Alfonso trovò Miceni che già accanitamente scriveva. Costui alquanto corto di vista, per scrivere col naso quasi toccava la carta. 

Sul tavolo di Alfonso c’erano i dispacci autografati, mancanti degl’indirizzi; una lettera di scrittura del signor Sanneo da copiarsi in conferma del dispaccio e infine un bollettino con cinque nomi, quelli delle case a cui era da indirizzarsi l’offerta. 

— Cinque soltanto? 

— Sí — rispose Miceni; — scrivono anche i contabili. Per le nove e mezzo circa avremo finito.