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lo aveva raccontato, però con un’ingenuità tale che egli non osò di fargliene un rimprovero. Ma venne ancora di peggio.
Costringendosi ad un sorriso, egli guardava le due fotografie ch’ella gli aveva consegnate con un inchino scherzoso. Una, in profilo, era fatta da uno dei migliori fotografi della città; l’altra era un’istantanea bellissima ma più per il vestito elegante, trinato, ch’ella aveva portato la prima volta in cui egli le aveva parlato, che per la faccia sfigurata dallo sforzo di tener aperti gli occhi ai raggi del sole. — Chi ha fatto questa poi? — domandò Emilio. — Il Leardi forse? — Egli ricordava d’aver visto il Leardi sulla via, con una macchina fotografica sotto il braccio.
— Ma no! — disse essa. — Geloso! Me l’ha fatta un uomo serio, sposato: il pittore Datti.
Sposato sì, ma serio? — Non geloso, — disse il Brentani, con voce profonda, — triste, molto triste. — Ed ora vide fra le fotografie anche quella del Datti, il grande barbone rosso, ritratto con predilezione da tutti i pittori della città e, vedendolo, Emilio ebbe un dolore acuto al ricordare una sua frase: "Le donne con cui ho a fare, non sono degne di costituire un torto a mia moglie" .
Egli non aveva più bisogno di cercare dei documenti; gli cascavano addosso, l’opprimevano, ed Angiolina, maldestra, faceva del suo meglio per illustrarli, metterli in rilievo. Umiliata e offesa, mormorò: — Merighi m’ha fatto conoscere tutta questa