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cina ci vedono. — Sempre ancora rideva ed egli, poi, la rammentò spesso così lieta d’avergli giuocato quel tiro da bambina maliziosa che fa dispetti a chi la ama. Sulle tempie i capelli le erano stati arruffati dal suo braccio, ch’egli come sempre, aveva posto intorno alla bionda testa; con l’occhio egli accarezzò le tracce della propria carezza.

Appena più tardi vide la stanza in cui si trovavano. La tappezzeria non ne era troppo nuova, ma i mobili, date quelle scale, quel corridoio e i vestiti della madre e della sorella, sorprendentemente ricchi, tutti dello stesso legno, noce, il letto coperto di un drappo con larga frangia, in un canto un vaso enorme con alti fiori artificiali e di sopra, sulla parete, aggruppate con grande accuratezza, molte fotografie. Del lusso insomma.

Egli guardò le fotografie. Un vecchio che s’era fatto fotografare in posa di grand’uomo, appoggiato a un fascio di carte. Emilio sorrise. — Il mio santolo — presentò Angiolina. Un giovanotto vestito bene ma come un operaio in festa, una faccia energica, uno sguardo ardito. — Il santolo di mia sorella, — disse Angiolina, — e questo è il santolo del più giovine dei miei fratelli, — e fece vedere il ritratto di un altro giovanotto più mite e più fine dell’altro.

— Ce ne sono degli altri? — domandò Emilio, ma lo scherzo gli morì sulle labbra perchè tra le fotografie ne aveva scoperte due unite, di uomini ch’egli conosceva: Leardi e Sorniani! Il Sorniani, giallo anche in fotografia, lo sguardo torvo, pareva continuasse