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e il presente vivrò già in quel tempo misto ch’è concesso ai soli uomini, i quali poi non lo sanno e parlano sulla base di una grammatica dai tempi puri utile soltanto alle bestie, le quali lottano, vivono e si spaventano solo nel presente. All’uomo la disperazione viene da tutte le parti e il suo presente è abbastanza lungo perchè egli abbia il tempo di strapparsi i capelli».
Italo Svevo aveva toccato l’età necessaria a tradurre in atto il suo studio del «tempo misto». Aveva scritto nel Marzo 1927, nella prefazione alla ristampa di Senilità: «Anch’io, che so ormai che cosa sia una vera senilità sorrido talvolta di aver attribuito ad essa un eccesso in amore». Ma per quanto con coteste parole lo Svevo volesse farci credere di sentirsi ormai fuori della mischia, è ben evidente che di amore — di un altro e più nobile amore — i suoi anni senili non furono scarsi. Ciò che anzi colpisce nelle ultime pagine dello Svevo — scritte da un uomo che aveva oltrepassati i sessantacinque anni — è appunto l’ardore di vita che le sconvolge, la capacità di tutto ricominciare e di tutto porre in questione ch’esse documentano. La giovane critica italiana ha molto parlato, negli ultimi tempi, e con una comprensione sempre più viva, dei tre romanzi dello Sve-