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di rinunziare al caffelatte da cui distavo non più di mezzo chilometro. Solo perciò esitavo di andarmene perchè era evidente che quando fossi disceso da quella collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto più. E, per guadagnar tempo, mitemente domandai all’ufficiale:
— Ma a chi dovrei rivolgermi per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio cappello?
Avrei dovuto accorgermi che all’ufficiale tardava di esser lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m’aspettavo di provocare tanta sua ira.
Urlò, in modo da intronarmi l’orecchie, che m’aveva già detto che non dovevo più domandarlo. Poi m’impose di andare dove il diavolo vorrà portarmi (wo der Teufel Sie tragen will). L’idea di farmi portare non mi spiaceva molto perchè ero molto stanco, ma esitavo ancora. Intanto però l’ufficiale a forza d’urlare s’accese sempre più e con accento di grande minaccia chiamò a sè uno dei cinque uomini che l’attorniavano e appellandolo signor caporale gli diede l’ordine di condurmi giù della collina e di sorvegliarmi finchè non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia, tirandomi addosso se avessi esitato ad ubbidire.
Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:
— Danke schön, — dissi anche senz’alcun’intenzione d’ironia.
Il caporale era uno slavo che parlava discretamente l’italiano. Gli parve di dover essere brutale in presenza dell’ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:
— Marsch! — Ma quando fummo un po’ più lontani si fece dolce e familiare. Mi domandò se avevo no-