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certa soddisfazione pensai fossero di febbre. Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo, o che me lo impedisse.
Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi. Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono in me i brividi fino a farmi battere i denti. Spaventata, essa mi costrinse a mettermi a letto. Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico. La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare. Non so per quanto tempo restammo così: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia. Avevo però la mente ancora tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto più tardi. Ritornavo al proposito di confessare. Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.
Così restammo ancora per vario tempo muti. Più tardi m’accorsi che Augusta s’era levata dalla sua poltrona e mi si accostava. Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto. Mi prese la mano, l’accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:
— Dovevi aspettartelo! Perchè tanta dolorosa sorpresa?
Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato. Era evidente ch’essa non alludeva alla mia avventura. Come avrei io potuto prevedere di essere fatto così? Con una certa rudezza le domandai: