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Guido rise sinceramente del mio disegno, ma poi osservò mitemente:
— Non mi pare che il tavolino m’abbia nociuto!
Non gli aveva infatti nociuto ed era questa l’ingiustizia di cui mi dolevo.
Ada prese i due disegni di Guido e disse di voler conservarli. Io la guardai per esprimerle il mio rimprovero ed essa dovette stornare il suo sguardo dal mio. Avevo il diritto di rimproverarla perchè faceva aumentare il mio dolore.
Trovai una difesa in Augusta. Essa volle che sul mio disegno mettessi la data del nostro fidanzamento perchè voleva conservare anche lei quello sgorbio. Un’onda calda di sangue inondò le mie vene a tale segno d’affetto che per la prima volta riconobbi tanto importante per me. Il dolore però non cessò e dovetti pensare che se quell’atto d’affetto mi fosse venuto da Ada, esso avrebbe provocata nelle mie vene una tale ondata di sangue che tutti i detriti accumulatisi nei miei nervi ne sarebbero stati spazzati via.
Quel dolore non m’abbandonò più. Adesso, nella vecchiaia, ne soffro meno perchè, quando mi coglie, lo sopporto con indulgenza: «Ah! Sei qui, prova evidente che sono stato giovine?» Ma in gioventù fu altra cosa. Io non dico che il dolore sia stato grande, per quanto talvolta m’abbia impedito il libero movimento o mi abbia tenuto desto per notti intere. Ma esso occupò buona parte della mia vita. Volevo guarirne! Perchè avrei dovuto portare per tutta la vita sul mio corpo stesso lo stigma del vinto? Divenire addirittura il monumento ambulante della vittoria di Guido? Bisognava concellare dal mio corpo quel dolore.