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Credo anzi le avessi scritte solo per mettere in carta i miei pensieri.
Da molti anni io mi consideravo malato, ma di una malattia che faceva soffrire piuttosto gli altri che me stesso. Fu allora che conobbi la malattia «dolente», una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli che mi resero tanto infelice.
S’iniziarono così. Alla una di notte circa, incapace di prendere sonno, mi levai e camminai nella mite notte finchè non giunsi ad un caffè di sobborgo nel quale non ero mai stato e dove perciò non avrei trovato alcun conoscente ciò che mi era molto gradito perchè volevo continuarvi una discussione con la signora Malfenti, cominciata a letto e nella quale non volevo che nessuno si frammettesse. La signora Malfenti m’aveva fatto dei rimproveri nuovi. Diceva ch’io avevo tentato di «giocar di pedina» con le sue figliuole. Intanto se avevo tentato una cosa simile l’avevo certamente fatto con la sola Ada. Mi venivano i sudori freddi al pensare che forse in casa Malfenti oramai mi si movessero dei rimproveri simili. L’assente ha sempre torto e potevano aver approfittato della mia lontananza per associarsi ai miei danni. Nella viva luce del caffè mi difendevo meglio. Certo talvolta io avrei voluto toccare col mio piede quello di Ada ed una volta anzi m’era parso di averlo raggiunto, lei consenziente. Poi però risultò che avevo premuto il piede di legno del tavolo e quello non poteva aver parlato.
Fingevo di pigliar interesse al gioco del biliardo. Un signore, appoggiato ad una gruccia, s’avvicinò e venne a sedere proprio accanto a me. Ordinò una spremuta e poichè il cameriere aspettava anche i miei ordini, per