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CAPITOLO VII.


Nella grande prateria.


Quando i tre volontari, il gambusino e Minnehaha, dopo qualche ora di riposo e dopo essersi ben convinti che i lupi avevano preso definitivamente il largo in cerca d’una cena meno indigesta, si decisero a lasciare la Missione, l’uragano che aveva spazzata tutta la notte la pianura boscosa, era cessato.

Un magnifico sole scintillava sulle alte vette della catena dei Laramie, sgombre anche quelle di nubi, asciugando rapidamente l’acqua caduta durante il tornado, la quale si tramutava in leggiere colonne nebbiose che il vento mattutino, di quando in quando, disperdeva.

I quattro cavalieri avevano subito lanciati i loro mustani al galoppo, premendo a tutti di raggiungere la grande prateria, la quale non doveva essere lontana che poche miglia.

John era sempre alla testa, ma non aveva più con sè la piccola indiana la quale era passata sul cavallo del gambusino, essendo anche quello molto robusto.

Il tornado aveva commesso delle vere devastazioni nella pianura. Centinaia e centinaia di piante erano state abbattute dalla furia del ventaccio e non poche vennero rovesciate dalle folgori le quali avevano fatto udire, per tutta la notte, i loro formidabili schianti misti a rombi assordanti.

I cavalieri, trovando più ampi passaggi, spinsero i loro mustani a tale corsa che due ore dopo raggiungevano il margine dell’immensa prateria.

Là non più piante d’alto nè di medio fusto: erbe e sempre erbe altissime, frammiste a larghe zone di girasoli splendidissimi e di sommachi.

John aveva fermato il proprio cavallo e, dopo essersi riparati gli occhi dai raggi del sole con tutte e due le mani, aveva interrogato lungamente cogli sguardi l’orizzonte.

— Nulla? — aveva chiesto Harry.

— Ma!... — aveva risposto l’indian-agent, scuotendo il capo. — Chi può dirmi che cosa si possa nascondere sotto queste erbe? —

Poi fiutò attentamente l’aria a varie riprese: