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CAPITOLO III.
L’attacco degli Sioux.
Mentre i valorosi volontari, rimessisi un po’ dalla prima emozione, occupavano fortemente lo sbocco della gola che era per fortuna stretto e difeso da enormi rocce, il colonnello e l’indian-agent tornarono correndo verso la tenda, in preda ad una vivissima ansietà.
Quando entrarono, la piccola indiana dormiva ancora, o almeno fingeva di dormire.
— Dammi la carta, John, — disse il colonnello, il quale era scosso da un forte tremito, come se presentisse una imminente sciagura.
— Eccola, signor Devandel, — rispose il gigante. — Perchè quell’indiano abbia arrischiata la vita, deve contenere delle cose molto gravi. —
Il colonnello spiegò la carta che aveva delle macchie di grasso e vi gettò sopra gli sguardi.
Un grido terribile gli sfuggì subito, e fu tale l’emozione che fu costretto, lui, uomo di guerra ed abituato a tutte le più tremende avventure, ad appoggiarsi ad un palo della tenda.
— Signor Devandel!... — esclamo l’indian-agent, spaventato. — Che cosa avete?
— Te lo dicevo io, — disse il colonnello, con un sordo singhiozzo.
— I miei figli!... I miei figli!...
— Rapiti? — chiese il gigante, impallidendo.
— Forse non ancora, ma questa carta dava l’ordine a Mano Sinistra, il grande capo degli Arrapahoes, ed a Caldaia Nera, l’altro sakem, di distruggere la mia fattoria e di rapire i miei figli, prima di unirsi ai Chayennes.
— Dato da chi?
— Da Yalla. Ah!... I miei poveri figli!... —
L’indian-agent alzò un lembo della tenda per ascoltare se si udiva ancora l’ikkiskota, poi rassicurato dal silenzio che regnava verso la gola del Funerale, empì un bicchiere di gin e lo porse al colonnello che pareva come istupidito, dicendogli:
— Suvvia, bevete prima di tutto, signor Devandel, e giacchè gli Sioux ci lasciano un po’ di tregua, discorriamo.
Io non credo che vi sia motivo di preoccuparsi tanto, ora che siamo