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CAPITOLO XXII.
John, i due scorridori della prateria ed i due figli del colonnello si erano precipitati fuori della saletta in preda ad una viva commozione, poichè nessuno si aspettava una così rapida comparsa degli Indiani.
I negri ed i meticci, guidati dall’intendente, il quale aveva ormai fatti alzare i tre ponti gettati sopra il fossato, si erano già slanciati sulle palizzate, le quali erano state fornite, internamente, di passaggi sorretti da robuste traverse, per poter meglio difendere la cinta ed accorrere più facilmente là dove il pericolo poteva diventare maggiore.
Tutti erano armati di buonissime carabine, di pistole e di asce, e parevano ben risoluti ad opporre una valida difesa, sapendo anche loro che non avrebbero trovato grazia alcuna da parte dei guerrieri di Caldaia Nera.
Due sentinelle avevano fatto fuoco verso la grande foresta di pini, sul cui margine si erano mostrati alcuni cavalieri rossi: degli esploratori certamente.
L’indian-agent, subito rassicuratosi, si era voltato verso il figlio del colonnello, dicendogli:
— Non sarà di giorno che quei vermi tenteranno l’attacco. Sono venuti ad osservare.
Vedete infatti che si sono affrettati a scomparire fra i grandi alberi.
Per ora si contenteranno di razziare il bestiame dell’hacienda.
— Un migliaio e più di capi, — disse il giovanotto, scuotendo il capo.
— Vostro padre è abbastanza ricco per farne a meno.
— Non dico di no, John. D’altronde mi ero rassegnato a perderli, dopo la dichiarazione di guerra delle tre nazioni.
Mi sarebbe stato impossibile farli guidare attraverso la prateria battuta dalle colonne dei guerrieri rossi.
Che si contentino di portarci via il bestiame.
— No, signor Devandel, — rispose l’indian-agent. — A loro premeranno più le nostre capigliature, ve lo dico io.