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CAPITOLO XVI.
Il galoppo dei quattro cavalli, ripercosso sul terreno battuto del piazzale della miniera, aveva subito traditi gli avventurieri ed indicata agl’Indiani la direzione che avevano presa.
Ciò d’altronde era inevitabile, essendo la foresta lontana tre o quattrocento metri. Soprattutto l’indian-agent non si era fatta nessuna illusione di poter allontanarsi alla chetichella, ben sapendo che acutezza d’udito posseggono i pelli-rosse.
— Bah!... — mormorò, spronando vivamente il suo cavallone, il quale spiccava dei salti giganteschi che i due mustani di Harry e di Giorgio non riuscivano ad imitare. — Li faremo correre nella foresta. —
Gl’Indiani, dopo una brevissima fermata intorno alla tettoia, per ben accertarsi che non vi si fossero nascosti dei visi-pallidi, erano ripartiti con gran furia, urlando ferocemente e sparando all’impazzata attraverso la nebbia che saliva dalla prateria e che accennava a diventare sempre più densa.
I quattro avventurieri, raggiunto il margine della foresta, vi si gettarono dentro, cercando di tenersi in gruppo serrato, per non smarrirsi. Guai se qualcuno fosse rimasto indietro; nessuno dei suoi compagni si sarebbe sentito la voglia di andarlo a cercare!
John, come sempre, guidava la corsa ed il gambusino la chiudeva per tenere raccolti i due mustani, molto più deboli dei cavalloni, come velocità forse, ma non come resistenza, essendo la razza andalusa una delle migliori che esistano.
Cominciavano a spuntare i primi albori, quando i quattro avventurieri, dopo aver attraversate parecchie foreste che si erano succedute le une quasi di seguito alle altre, giunsero sul margine della prateria.
Una fitta nebbia ondeggiava al di sopra delle alte erbe, sbattuta e travolta da un forte vento di tramontana che scendeva dagli alti picchi della sierra Escalada, già rosseggianti sotto i primi raggi del sole.
— Ecco la nostra salvezza, finchè durerà, — disse John. — Cacciamoci in mezzo a questi vapori e vediamo se possiamo far perdere le nostre tracce a quei dannati vermi.