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Sul Trappo del Monte Simmolo presso Intra
in riva al Lago Maggiore e sui Vetri
che se ne sono formati
1.

DI CARLO AMORETTI.



S

Tavami sul principio del 1797 ad Intra in riva al Verbano, godendo dell’ospitalità di benefici e rispettabili Signori e amici2

e approfittando dell’ozio malgrado mio accordatomi per la soppressione della Società Parr. d’agricoltura e d’arti, io percorreva ne’ sereni dì dell’inverno i monti che circondano quel bel paese, e i due fiumi fra i quali è edificato il ricco borgo. E mentre quanto la natura offriva io andava osservando, m’avvenni nel fiume settentrionale, detto di San Giovanni, a vedere non infrequenti certi sassi che al colore, alla tessitura, alla forma angolare, sebbene per l’azione dell’acqua e pel rotolamento in gran parte smussata e perduta, sospettai essere lave e basalti. E poichè ivi abitavamo la casa del Sig. Peretti che una fabbrica v’ha di cristalli e di vetri allora in attual lavoro, alcuni frammenti di quel sasso portai meco per esperimentarlo, ben certo che fuso sarebbesi in vetro nero opportuno per farne bottiglie se era basalte, sapendo che appunto col basalte e colle lave

  1. Nella Lettera al mio amico P. Prof. Soave (che le infelici circostanze hanno per tre anni tenuto lontano, e che ora è qui tornato alla sua Cattedra) inserita nel Tomo XIX pag. 347 diedi ragguaglio del trovato Trappo, ed annunziai una Memoria estesa su quell’argomento, che difatti scrissi in francese per la R. Accad. delle Sc. di Torino. Però pur quell’Accademia, come molti altri utili stabilimenti, a motivo delle scorse vicende, onde, scrivendola poscia in nostra lingua, la mandai alla Società Italiana e fu inserita nel Tomo VIII alla pag. 416. Da quella or la traggo, e mi si vorrà perdonare, io spero se, per concatenare il ragionamento, alcune cose io dovrò qui ripetere, affinché non siavi d’uopo di rileggere quella Lettera per intendere questa Memoria.
  2. Il Sig. Conte Giberto Borromeo, e ’l Sig, Marchese Ferdinando Cusani suo suocero, che dopo il sofferto lungo arresto dell’uno e deportazione in ostaggio dell’altro, erano colà andati a cercare la tranquillità che non aveano in patria.