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varietà | 297 |
di Teodorico, togliete quello di Guido degli Anastagi, il disegno della visione non viene identico sì a Verona e sì a Ravenna?
E, penso: a Ravenna arrivò la leggenda di Teodorico, che dà la caccia alle ninfe, per la pineta. Passò il tempo; il nome del cacciatore si perse; restò solo il ricordo vago, un cavaliere che spinge i cani dietro una giovane nuda, fuggente; la raggiunge, la uccide come una fiera. Finchè venne il giorno; e il popolo, con quel procedimento che gli è peculiare, applicò alle figure della visione i nomi di personaggi noti, che occupavano allora la sua fantasia.
Il popolo forse, o il novelliere. Non so e non importa. La leggenda c’era.
C’era nella pineta di Ravenna, nella foresta incantata dove Dante visse, sognò, creò tanta parte, tutta forse la Commedia divina, c’era la leggenda della caccia selvaggia.
Non sente il lettore mille piccoli aculei che gli chiudono ogni altra via, e lo piegano a quella che mena a concluder con me?
Ricordiamo che la Commedia fu composta forse intiera (intiera certo, deve dire chi ha letto la Mirabile Visione del Pascoli) in Romagna, e che la Romagna la empie tutta della sua gente, dei suoi paesi, delle sue memorie; ricordiamo che Dante scrisse in Ravenna, ed ebbe sempre meravigliosamente viva negli occhi la fatale pineta, che è insieme selva oscura e divina foresta. A questi fatti certi accostiamo questi altri, che non son meno certi, per chi m’ha seguito; la somiglianza compiutissima tra la pena dei dissipatori e la caccia selvaggia, la esistenza della leggenda in Ravenna. Non ne balza irrefrenabile la conclusione, come dal raccostamento dei due poli elettrici la scintilla, che Dante disegnò la sua scena, ispirandosi alla leggenda popolare?
Ed ecco come io mi figuro lo svolgimento del pensiero di Dante. Io credo che a Dante, quando pensò al peccato dei dissipatori, occorresse alla memoria il mito di Atteone, il quale gli doveva parer che raffigurasse la punizione dello stesso peccato. Ma ecco che il quadro di un prodigo inseguito dai cani gli richiamò nella fantasia la scena della caccia selvaggia, che gli si impose subito più accesa di colore, e di più bello e calcato disegno. E ad essa sola fissò il suo occhio d’artista, mentre veniva delineando e figurando la pena dei dissipatori.
Quanto all’allegoria poi, egli dovè stabilire un solo rapporto ben determinato fra la parvenza sensibile della pena e l’apprezzamento astratto del peccato.