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PARTE PRIMA 87

dal trono d’Italia. Nè le PP. AA. sarebbero per determinarsi a seconda dei desideri più o meno espressi del senato italiano, ma sì a seconda delle scambievoli convenienze, e di altri riguardi non meno rilevanti. Avrebbe il vicerè adoperato con troppo precipizio ove indietreggiato avesse alla vista delle istruzioni date dal senato ai conti Guicciardi e Castiglioni; ma la sua fidanza nell’avvenire e nella benivoglienza dei Milanesi fu scemata d’assai.

Non tardò però guari a ricevere l’ultimo colpo. Le notizie del 20 d’aprile pervennero a Mantova. Grande e generale fu la costernazione in quella città. I conti Guicciardi e Castiglioni si affrettarono a pigliare il commiato dal vicerè e tornarono a Milano, ove furono accolti come traditori per avere comunicato con lui. L’esercito raunossi al grido: Viva il principe Eugenio! e i capi suoi accorsero a recargli le più calde proteste di devozione dei loro soldati. Supplicarono anzi acciò fosse loro concesso di muovere a Milano, pigliandosi essi l’assunto di ridurre, senza spargimento di sangue, a migliori sentimenti e a miglior senno la popolazione milanese. Caldissime erano le loro istanze; procedeano da nobili cuori, devoti alla gloria della patria, da animi semplici, ma retti, che nella pratica dei pericoli avevano acquistato un senso squisito per iscorgere subito i veri mezzi di salvezza.

Se il principe Eugenio fosse stato italiano, egli avrebbe potuto aderire alle instanze dell’esercito; ma, straniero qual era, nessuno sarebbesi mosso a credere che, s’egli facea violenza al voler nazionale, proponevasi tuttavia il miglior pro della nazione istessa; nè quel che