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52 PARTE PRIMA

nulla chiedere alle Potenze; perocchè il chieder loro la felicità, l’independenza e la pace in termini generali era lo stesso che darsi in balìa, senza veruno schermo, al loro beneplacito. “Ecchè?” dicevano essi con ardore e quasi con disperazione; “non vedete voi che dal punto che il regno d’Italia rimane vacante, esso non esiste più? Non vedete voi che, abbandonando il principe Eugenio, voi stessi vi date in preda dei suoi nemici? Non istate già per recare proposte alle Potenze Alleate, ma state per deporre a’ loro piedi le vostre libertà, la vostra independenza. E che cosa significano quelle proteste di stima e di attaccamento che fate al principe Eugenio, allora appunto che ricusate d’unirvi con lui? Possibile che non sentiate che queste vane formole diventano, in siffatte congiunture, un insulto anzichè un omaggio?”

Ragionarono a lungo, e bene, ma senza frutto veruno. Chi si oppose più ostinatamente, e diciamolo pure, con le più triste ragioni, all’instanze dei partigiani del vicerè, fu il conte Guicciardi. Chi non ha conosciuto costui, e si farà a leggere ciò ch’egli disse in quella occasione, potrà dirlo insensato. Quanto a me, che già tempo fui in grado di apprezzare la meravigliosa sagacità e la somma scaltrezza del conte Guicciardi, io debbo con mio rammarico fare di lui un tutt’altro giudizio. Rideva senza dubbio in sè stesso il Guicciardi dei meschini suoi raziocini; ma si avvedeva che, ad onta della meschinità di essi, bastavano quei raziocini agli animi prevenuti che lo ascoltavano; s’avvedeva che così impediva l’invio della deputazione, o almeno faceva in modo ch’essa non altro recasse alle potenze alleate che