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188 PARTE SECONDA

risposegli l’imperatore con quel tuono di bonarietà che sempre pigliava parlando coi Viennesi, e talvolta altresì con chiunque: “Pensate a quel che mi chiedete; fareste voi grazia a costoro se foste in mia vece?” - “Io vengo, sire, ad impetrare una grazia, e non ad offrirvi un consiglio”, rispose Giovanni Castillia. “Guardate un po’ in qual modo cotesti liberali sentano la riconoscenza”, riprese a dire l’imperatore: “Guardate quel Pellico! Chi non direbbe, al leggere le sue Prigioni, che tutti sono buoni, tranne me solo, che sono un tristo? Egli si guarda però dal dire che la sua pena era di venti anni di carcere duro, ch’io l’ho da prima ridotta a dieci anni, e che l’ho fatto riporre in libertà al principio del quarto anno. Egli non dice neppure che, preso da compassione della sua distretta, io gli ho fatto rimettere, deponendolo sul territorio piemontese, cento ducati d’oro. Andate, andate; siffatta gente è incorreggibile, nè si guadagna nulla a trattarli con dolcezza”.

È superfluo l’aggiungere che il vecchio Castillia, essendo sceso nella tomba alcuni mesi prima dell’imperatore Francesco, morì senz’avere riveduto il figliuolo. Affranto dall’età e dalla malattia, accerchiato dagli altri suoi figliuoli, ma sempre affisato col pensiero in quello che avea perduto, ebbe gli ultimi suoi giorni pieni d’angosce e d’affanni. Pareagli continuamente di vedere agenti di polizia appressarsi al suo letto e porre le mani or sull’uno or sull’altro de’ suoi figliuoli. Voler parlare, diceva, al direttore generale, volere accertarlo che niuno de’ suoi congiurava, voler supplicarlo di lasciarlo morire in pace. Nè quel tremendo delirio cessò che allo spegnersi in lui della vita.