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88 PARTE PRIMA

più monta, la sua stessa coscienza l’avrebbe ricisamente assolto. No, il principe Eugenio non provava per l’Italia quel tale sentimento sì forte e sì puro ad un tempo, che nel seguirne le ispirazioni non debbasi mai temer di misfare; egli era privo di quella infallibile guida. Che aveva egli in quella vece? Il suo interesse particolare. Or chi potrà biasimarlo di non avere ascoltato suggerimenti che egli stesso poteva attribuire ad un così ignobile consigliero?

La condotta del vicerè in quel punto fu onorata per ogni verso. Fu semplice, schietta, ricisa; ma fu terribile per gl’Italiani. “Non voglio”, diss’egli a tutti, a’ suoi generali, ai suoi soldati, ai suoi congiunti, alla consorte, ai nemici, “non voglio pormi per forza a capo di una contrada che non mi desidera. L’Italia è già pur troppo da commiserarsi; essa lo è da gran tempo, e sta per esserlo vieppiù; io non debbo aggravare i suoi guai aggiugnendovi la guerra civile, e tutti i flagelli che l’accompagnano. Io mi pensava potermi reggere ancora dopo la caduta dell’imperatore, e ciò per la speranza di trarre a salvezza la contrada che mi è stata affidata. Questa contrada ributta il mio appoggio; e ciò basta. Me ne ritorno al mio benefattore, al mio capo, al padre mio, a colui del quale io aveva sempre desiderato di condividere il destino”. Era il vicerè edotto, in allora, del trattato di Fontainebleau, che assicurava a Napoleone uno Stato fuori di Francia, vale a dire in Italia. Sordo ormai alle instantissime suppliche di tutti coloro che faceano retto giudizio della condizione dello Stato italiano, il principe Eugenio conchiuse il 23 di aprile col maresciallo Bellegarde un’altra convenzione,