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Sarebbe adesso da dire a dilungo delle vie dell’arte e del debito dell’artefice, le quali cose toccherò brevemente. Cicerone là dove nel libro degli ottimi oratori discorre il modo da sè tenuto nel mettere in latino le contrarie nobilissime orazioni di Demostene e di Eschine, distingue l’officio di interprete da quello di traduttore “Non enim converti ut interpres, sed ut orator iisdem sententiis et earum formis tamquam figuris, verbis ad nostram consuetudinem aptis, in quibus non verbum pro verbo necesse habui reddere„ e altrove “nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent„ Quintiliano soggiunge “Neque ego paraphrasim esse interpretationem tantum volo, sed circa eosdem sensus certamen atque aemulationem„ Se dai tempi del Consolato e della Dittatura a quelli di Augusto, e degli altri Imperatori non si cangiò il significato delle voci “interpres interpretatio„ è chiaro che interprete è quello, che tien dietro alle parole, e traduttore alle sentenze; quindi piana mi è la spiegazione del verso della poetica di Orazio:

     Nec verbum verbo curabis reddere fidus
     Interpres.

E tu che prendi a volgere cose poetiche d’una in altra lingua non dovrai farla da interprete, che stretto alle parole ad una ad una le rende. Per tal modo mi sembra potersi terminare la controversia, che fu ed è intorno al senso del verso citato. Quindi si può conchiudere che negli scritti insegnativi di scienze e di arti conviene tenere officio d’interprete, e di traduttore in quelli, ove