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fista, e la favola milesia dell’Apuleio. Ora l’esame delle sentenze, e delle similitudini, che citai di sopra, mi sarà materia a continuare il ragionamento. Dettato, che per venustà sappia destare piacevolmente il lettore, non può essere frutto che di arte bella, se già da questo numero non si vogliano tenere escluse le belle lettere. Ciascuno, che tanto quanto ebbe presa domestichezza con esse, e massime con poesia, non ignora come ella si piaccia di linguaggio dagli altri singolare, il quale non s’impara per altro modo, se non con udire, che trovar si debbe nella virtù della propria imaginativa, nella velocità del proprio ingegno, e negl’intimi penetrali del proprio senso educato allo specchio de’ migliori esemplari; lo che, se avvegna, registra il dicitore nella schiera de’ cultori delle arti belle. In questa schiera Orazio raccolse l’opera de’ traduttori, mentre ad essi diede loco, e precetto in quel codice del buon gusto, la lettera ai Pisoni. Egli, che ringraziava la verace Parca di avergli conceduti spiriti di greca Musa, si piaceva di adattare a corde latine suoni di greca lira. Ne fanno testimonianza un epigramma di Callimaco inserito nella satira seconda del libro primo, e in ode un carme di Alcéo, di cui poche relique ci ha serbate Atenéo.

So, e mal volentieri lo dico, che questa lodevol arte fu talvolta a noi invilita da prove illaudate; colpa forse il facile metro di lingua, nella quale si nasconde un canto, e una più facile speranza di non incorrere le sorti di Volusio, e di Mevio. Chi non sa, nè può a meraviglia esprimere i propri concetti non isperi potere a sè sopravvivere ritraendo gli altrui. Ovunque sia usanza e pregio di