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cessero: e perciò correndo tutti alla concione, egli comandò a suoi, che, rotte le porte più deboli delle mura, entrassero dentro per forza. Né mancò d’effetto il suo pensiero, come egli cominciò il suo parlamento, tosto gli Ateniesi presero la città.

Aveva Alcibiade certo cataniese, il quale gli era fidato molto , e già conosciuto in Siracusa. Costui dunque fu spedito da Alcibiade in Siracusa fingendo che fosse mandato da Cataniesi per favellare a loro amici e famigliari, de’ quali egli sapeva il nome. Il quale giunto che fu quivi gli fece a sapere (siccome gli era dettato da Alcibiade) che avendo abbandonato gli Ateniesi i loro alloggiamenti, i Cataniesi se ne stavano disarmati. Che s’eglino pigliassero per tempo gli alloggiamenti degli Ateniesi gli avrebbero potuti opprimere senza difficoltà alcuna, chiusi e disarmati dentro della città. Ciò si credettero i capitani di Siracusa, e comandarono che ciascuno uscisse fuori per la Catania, ed avvicinandosi al fiume Simotoe quivi si accamparono. Ora Alcibiade avendo inteso, come eglino erano venuti con grandissima diligenza, messe in ordine le galee, liberamente navigò a Siracusa, là dove senza alcun divieto rovinò la fortezza loro, che da una parte era svelta.

Levate ch’ebbe l'ancore Alcibiade per partirsi di Sicilia, per conto di andare al giudizio delle statue, e de’ misteri di Mercurio, montò su d’una nave rotonda, e navigo in Lacedemone. Quivi giunto, persuaso che si dovesse mandar tosto il soccorso ai Siracusani, e fortificare Decelia1, altrimenti ch’eglino più non ne ri-

  1. Non i Lacedemoni, come sembra potersi dedurre dal presente racconto di Polieno, ma bensì gli Ateniesi si dettero a fortificare Decelia in tale congiuntura.