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verso l’uscio della sua camera, vidde un non so che di ombra che appareva, e addimandò se vi era alcuno che restasse a dir l’opinione sua. Fulli risposto che nò. Il re ch’aveva adocchiato uno, disse: Parmi veder — se non son cieco — non sò che dietro quella porta; e chi è egli? A cui rispose uno di quei sapienti: Est homo quidam; quasi schernendolo, e facendosene beffe di lui: e non considerava che spesse volte aviene che l’arte dall’arte è schernita. Il re fecegli intendere che venisse inanzi alla presenzia sua; ed egli così mal vestito che un mendico pareva, fecessi innanzi, e tutto timoroso umilmente s’inchinò, dandogli un bel saluto. Il re, fattolo prima onorevolmente sedere, lo interrogò del nome suo. A cui rispose: Gotfreddo è il mio nome, Sacra Maestà. All’ora disse il re: Maestro Gotfreddo, voi dovete a bastanza aver inteso ’l caso mio per la disputazione c’hanno fatto fin’ora questi onorandi medici; però non fa bisogno altrimenti riassumere quello ch’è stato detto. Che dite adunque voi di questa mia infermità? Rispose maestro Gotfreddo: Sacra Maestà, quantunque tra questi onorandi padri, il più infimo e il men dotto e il men eloquente meritamente dir mi possa per esser povero e di poca estimazione, nondimeno per obedire a’ precetti di vostra sublimità, mi sforzerò, in quanto per me si potrà, di dichiarirle l’origine del mal suo, indi darolle una norma e una regola, che nell’avenire sano viver potrà. Sappiate, signor mio, che l’infermità vostra non è a morte, perciò che non è causata da fondamento fermo, ma da sforzato e non aveduto accidente, il quale, sì come tostamente venne, così ancor prestamente si risolverà. Io, acciò che riabbiate la pristina sanità, non voglio altro da voi, eccetto la dieta, prendendo un poco di fior di cassia per rinfrescar il sangue. Il che fatto, in otto