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sontuosa cena a gli amici suoi, dimostrandogli che la malizia spagnuola supera quella d’ogni gran villano.
Il signor ambasciatore, che attentamente avea ascoltata la favola della gentil Signora maravigliosamente raccontata, quella sommamente commendò affermando, lei con la sua aver superata la sua. Il che tutti ad alta voce confermorono. Ma la Signora, veggendosi dar il vanto, s’allegrò; e volto il suo caro viso verso l’ambasciatore, disse.
Nacque il mio padre di mia madre, e po
Ella l’uccise, e morend’ei, nacqu’io:
E me co’ miei fratelli e figli suoi,
Ella, finchè crescemmo, ne nodrio.
Vivemmo un tempo insieme; ma di noi
Gran parte ci troncò la vita un rio.
Oh quanta è ben nostra bontà infinita,
Che chi ci strugge, al fin li diamo vita!
Questo enimma non fu da alcuno inteso, ancor che sopra di esso fussero fatti lunghi comenti: ma la Signora, vedendo niuno toccare il segno, disse: Gentil’uomini miei, il mio enimma altro non significa, se non il furmento, il qual nasce dal furmento suo padre, e dalla terra sua madre, la quale l’uccide: e uccidendolo, nasce il furmento, che la terra nutrisce fin che il cresce. Il furmento, unito insieme con gli fratelli, cioè con le granella, vivono insieme fino attanto che il monaio li tuol la vita macinandolo. E tanta è la sua bontà, che dà vita a chi lo strugge. Fu sommamente lodata l’esposizione dell’enimma; quando il signor Pietro Bembo alla sua favola diede principio, così dicendo.